Sul Sentiero Bove ricordano un grande esploratore italiano

É una storia d’altri tempi quella che ha come protagonista Giacomo Bove. Una storia che racconta le gesta di un sognatore indomito, un uomo curioso, uno studioso sublime e, infine, una persona malata che con un gesto estremo decise di porre fine al suo tormento. Una vita fatta di conquiste, di successo e di fama che si spense a soli 35 anni e che venne presto dimenticata in un’Italia che, come spesso accade, è poco generosa nel ricordare i suoi figli migliori. Grazie all’encomiabile opera di Marco Albino Ferrari, giornalista, scrittore e direttore del mensile Meridiani Montagne la storia di Giacomo Bove si può ora conoscere e apprezzare nel libro La via incantata. Nella natura, dove si basta a sé stessi, secondo appuntamento della collana dedicata alla montagna edito da Ponte alle Grazie in collaborazione con il Cai – Club Alpino Italiano. Grazie a uno stile preciso, molto gradevole e, a tratti, piacevolmente poetico, Ferrari prende lo spunto dall’escursione sull’affascinate Sentiero Bove, tormentato trekking dalle alterne fortune, ma entrato nella storia come la prima alta via delle Alpi italiane e anche la prima via ferrata, per ripercorrere la vita di questo esploratore piemontese che raggiunse una notorietà internazionale grazie alla sue missioni scientifiche che lo portarono a solcare i mari e scalare le vette di tutto il mondo. Dalla ricerca, nel 1878, del passaggio a nord-ovest, con l’avventurosa permanenza obbligata nell’inverno artico, alla spedizioni del 1882 nella Terra del Fuoco, la Fin del Mundo, dove dovette affrontare una serie di pericoli non solo climatici, Giacomo Bove scrisse il suo nome nella storia mondiale dell’esplorazione prima di finire dimenticato dalle quelle istituzioni che, fino al suo suicidio, aveva visto in lui un simbolo per un’Italia che si stava trasformando e che guardava sempre più al di fuori dei propri confini. “Osservare, nominare, classificare, togliere alla natura il primato del caos e consegnarlo alla consapevolezza dell’uomo: questa è la stella che Bove aveva tentato di seguire nella sua breve esistenza” scrive Ferrari. Leggere i dettagli delle spedizioni che organizzò, le peripezie che dovette affrontare tra i -47° C dell’inverno artico e la sua instancabile voglia di viaggiare per conoscere, permette di entrare in contatto un personaggio unico in grado di riempire i teatri grazie alle centinaia di persone che volevano scoprire, ascoltando i suoi resoconti, cosa ci fosse in quei luoghi così lontani di cui forse non avevano mai sentito parlare. Un successo che però il suicidio cancellò, calando sul suo nome una damnatio memoriae che questa opera, finalmente, cancella. Le pagine che l’autore dedica alla descrizione del Sentiero Bove in Val Grande, nel nord del Piemonte, l’area wilderness più grande d’Italia, sono piene di quell’amore vero e genuino per la montagna che caratterizza gli altri bellissimi volumi scritti da Marco Albino Ferrari. Immergersi nella natura selvaggia, lasciarsi affascinare dalla sua maestosità, godere di quei luoghi che spesso, come scrive Ferrari, non conosciamo nemmeno, persi dietro all’ennesima meta esotica dall’altro capo del mondo: “Si va lontano per conoscere, e più lontano si tende ad andare meno si conosce ciò che ci circonda. Il vero esotico, il vero mondo sconosciuto ci sta sempre più vicino. E non ce ne accorgiamo”. Grazie a La via incantata. Nella natura, dove si basta a sé stessi possiamo conoscere non solo la vita di un uomo eccezionale il cui nome oggi è anche quello di un ghiacciaio, di un fiume e di un monte in Patagonia, ma anche la poesia della montagna, la naturale e sconvolgente bellezza di un luogo selvaggio dove ritrovare sé stessi: “Ascoltarsi è una delle gioie di camminare in montagna […] Non è in fondo questo che cerchiamo quando andiamo in montagna? – scrive Ferrari – L’astrazione da ogni cosa, lasciare a valle tutto, e rimanere soli dove i rumori finalmente tacciono”. Un luogo fisico che è anche una condizione mentale, come racconta Marco Albino Ferrai in questa intervista.

Perché ha deciso di scrivere un libro su Giacomo Bove e sul sentiero che gli è stato dedicato?

Perché il Sentiero Bove è un sentiero particolare, unico nelle Alpi: è un sentiero che è stato tracciato alla fine dell’800, è la prima alta via delle Alpi italiane ed è anche la prima via ferrata. Questo fatto mi ha incuriosito e ho così deciso di percorrerlo: ho trovato un sentiero magnifico, un belvedere che si rinnova passo dopo passo, tutto intorno alla Val Pogallo e alla Val Grande, questi territori di grande natura selvaggia che nel 1985 sono stati definiti dal Corpo Forestale dello Stato come l’area di wilderness più vasta d’Italia. Percorrendolo, dopo quattro giorni di cammino, mi ha incuriosito anche lo stesso Bove: ho scoperto che è stato uno dei più grandi esploratori italiani della fine del 1800. Amico di Edmondo De Amicis che, dopo la morte, aveva scritto di Bove facendone un bellissimo ritratto: nei suoi articoli raccontava infatti delle folle di studenti che lo accoglievano nella stazioni quando arrivava nelle città e della tantissime persone che andavano ad ascoltarlo quando faceva incontri pubblici. E poi c’è un ghiacciaio in Patagonia, un fiume e anche una vecchia base antartica che portano il suo nome. Quindi mi ha incuriosito capire il perché di tutta questa notorietà all’epoca sia poi andata perduta.

Che cosa l’ha colpita maggiormente di Bove e della sua vita?

Bove è stato un uomo che ha avuto una vita breve, è morto suicida a 35 anni dopo aver contratto una malattia in Africa che lo aveva consumato. Bove era figlio del suo tempo: attraverso la sua vita si può leggere un intero periodo. Siamo nell’epoca del positivismo: il mondo aveva fiducia nel futuro, nella tecnica, nella scienza; il mondo stava diventando sempre più piccolo perché veniva attraversato da treni mentre i piroscafi solcavano l’oceano facendo record di traversate; c’era il telegrafo, la corrente elettrica. Era un mondo quindi che si proiettava nel futuro, che aveva questa visione della vita e della storia che tende tutta a un miglioramento. Però in lui c’era anche lo spirito romantico, quell’incredibile sete di conoscenza: aveva una formazione scientifica, arrivava dall’Accademia Navale, era astronomo e soprattutto oceanografo e pulsava in lui quello spirito romantico che connota l’800. Quindi c’era una doppia valenza: razionale, proiettato nel futuro, ma anche attratto dalla propria missione, a costo della vita, che è proprio dello spirito romantico.

Perché, secondo lei, Bove, nonostante le sue imprese, rimane così poco conosciuto in Italia?

Intanto per le circostanze della sua morte: è stato un suicida e allora i suicidi non si perdonavano tanto che a Genova, dove risiedeva, gli è stata negata la sepoltura nel cimitero perché i suicidi non potevano stare accanto a chi era morto di morte naturale. La sua bara quindi peregrinò tra Piemonte e Liguria fino a quando trovò riposo nel cimitero di Acqui Terme (AL), ma anche lì il Sindaco vierò che venisse messa una lapide in suo ricordo. Questo, quindi, è un primo aspetto che ha gettato una damnatio memoriae su questo personaggio. A questo si aggiunge poi il fatto che l’Italia è comunque poco incline allo studio della geografia: si studia sempre meno anche a scuola e gli esploratori, i navigatori, gli alpinisti, che sono i portabandiera della geografia in qualche modo, vengono dimenticati. Non è cosi, ad esempio, in Inghilterra dove Ernest Henry Shackleton viene studiato a scuola o in Norvegia dove Fridtjof Nansen è un eroe nazionale.

Nel libro parla anche di una civiltà, quella cioè legata alla montagna, che sembra ormai scomparsa: è così? C’è un ritorno?

É un dato di fatto: con lo spopolamento della montagna avviato dagli anni ’50 abbiamo assistito al tramonto della civiltà tradizionale alpina, quella della fatica, che viveva in montagna con i ritmi delle stagioni. Quella civiltà è scompara e quindi c’è stato lo spopolamento, con paesi abbandonati e intere frazioni non più abitate. Oggi assistiamo ad un timido ritorno, anche se non è un’inversione di tendenza, ma è semplicemente un ritorno sporadico di giovani, magari figli o nipoti di chi aveva abbandonato la montagna, oppure cittadini che magari vogliono cambiare vita o anche proseguire il loro lavoro, spesso nel terziario, attraverso Internet, in remoto. Ci sono luoghi però inospitali come la Val Grande dove il ritorno è impossibile: la Val Grande è destinata a diventare sempre più territorio selvaggio. La popolazione, inoltre, non è distribuita in modo equilibrato su tutto l’arco alpino: ci sono territori che diventano dormitori per pendolari verso la città, come la Val di Susa o le valli sopra Bergamo, le valli cioè in corrispondenza delle grandi città pedemontane. Altre valli, invece, sono del tutto spopolate. E poi ci sono le centrali del turismo che nell’immaginario vengono associate alle Alpi stesse, come se tutte le Alpi fossero Courmayeur, Cervinia o Madonna di Campiglio. In realtà quelle sono piccole isole dell’industria del turismo che vengono pubblicizzate e quindi, chi non conosce la montagna, ritiene che la montagna sia tutta così. In realtà le Alpi sono ancora un luogo di abbandono e di silenzio dove il selvaggio e la foresta avanzano sempre più.