Il manicomio dei bambini

Il giornalista Alberto Gaino, autore del libro

Angelo aveva tre anni quando fu rinchiuso e dimenticato in un manicomio. Ci rimase nove lunghi anni. Nove anni nei quali subì punizioni “per ogni nonnulla”, fu legato al letto o al termosifone e dovette patire 52 sessioni di elettroshock, non solo alla testa, ma anche ai genitali, alla colonna vertebrale e ai reni. Ma Angelo non fu l’unico bambino costretto una reclusione forzata a Villa Azzurra, il manicomio dei bambini in provincia di Torino. A raccontare le loro storie ci ha pensato il giornalista Alberto Gaino: nel suo libro Il manicomio dei bambini (Edizioni Gruppo Abele), Gaino accompagna il lettore attraverso i documenti e le cartelle cliniche di alcuni quei “bambini da scartare”, piccoli e innocenti esseri umani che una psichiatria deleteria condannò spesso alla morte, fisica, psichica e morale perché ritenuti “pericolosi per sé e per gli altri”. “Negli anni Sessanta – scrive Gaino – fra Villa Azzurra e la sezione 10 di Collegno (uno dei quattro manicomi in provincia di Torino, N.d.R.) si trovavano ricoverati 170-180 minori, con una punta iniziale di 200”. Saverio, Libero, Maria, Aristide, Aldo, Grazie, Valter, Ignazio: l’elenco dei bambini costretti a sopravvivere in quell’inferno è lungo e le pagine di Gaino costituiscono un documento difficile da affrontare e a tratti duro da leggere. Ma Il manicomio dei bambini è un libro necessario, un’opera di cui c’era bisogno affinché non venga taciuto né dimenticato il passato di centinaia di bambini abbandonati, maltratti e dimenticati in quella che Garino definisce, giustamente, “un’immensa discarica umana”. In questa intervista Alberto Gaino parla del suo libro, delle emozioni provate scrivendolo, ma anche di come ancora oggi ci siano situazioni difficili e luoghi dove i bambini vengono lasciati «a galleggiare in un’atmosfera surreale».

Quando e come è nata l’idea del libro?

Molti anni fa, l’idea che ci fossero bambini in manicomio dall’età dei 3 anni mi sembrò una grande mostruosità. E poi non se ne parlava negli anni ’70 e non se ne parla nemmeno ora. Forse perché realtà troppo dura, inaccettabile. Alcuni mi dicono: hai scritto un bel libro, ma non riesco ad andare avanti.

Secondo lei come è stato possibile che avvenisse ciò che racconta nel libro, cioè che dei bambini, anche di tre anni, potessero essere rinchiusi nei manicomi?

Villa Azzurra

Erano bambini senza nessuno, o bambini che provenivano da famiglie poverissime e disastrate. Gli ultimi. Come oggi lo sono i bambini stranieri che arrivano dallo stesso genere di famiglie o arrivano soli dai loro paesi lontani, pieni di cicatrici e traumi.

Le storie che lei ripercorre nel libro sembrano avere un tratto in comune, la povertà delle famiglie.

Era così. I manicomi sono sempre stati discariche umane. Lo erano a maggior ragione quelli per bambini: a metà degli anni ’60, picco del boom economico e demografico del dopoguerra, erano circa 200 mila i minori rinchiusi in quelle istituzioni, che comprendevano anche gli istituti psico medico pedagogici, con una sola differenza rispetto alle Ville Azzurre d’Italia: niente camici bianchi al loro interno. Ma era una differenza solo formale: negli ospedali psichiatrici i medici si rinchiudevano nei loro uffici, con l’eccezione di Coda, l’educatore sadico di Villa Azzurra, e forse della democratica Luisa Levi, sorella di Carlo, che ogni tanto si portava a casa un bambino per qualche giorno, ma che non si è mai sostanzialmente opposta ad un’organizzazione della cura che aveva un solo contenuto: custodire legando i bambini per comodità degli infermieri, ridurre al minimo i rischi di incidenti, tanto i bambini erano arnesi per loro.

Cosa l’ha colpito maggiormente delle storie ripercorse nel libro?

Ero preparato: alcuni di quei bambini li avevo incontrati da adulti fatti, vite strapazzate e abbattute cui è occorso una vita per conquistare qualche piccolo spazio di vita autonoma. E comunque, per ottenere l’accesso alle cartelle cliniche, riuscire a mettere le mani nello squallore, disordine, polvere con le quali sono conservati questi preziosi documenti, mi è progressivamente montata una grande indignazione dentro. E a leggere le relazioni e i diari clinici alla rabbia è subentrata una certa ansia di condivisione: si doveva sapere, si deve sapere. Non ho avuto, non mi sono dato quasi il tempo di provare dolore. Mi sono commosso più di una volta, anche nello scrivere e ancora oggi, a rileggere certe pagine, un po’ mi emoziono a riaccostarmi a quelle giovanissime vite lontane, alle quali però mi sentivo e mi sento vicino. Lo scrivo ad un certo punto nel libro: sono stato un bambino, un adolescente, un ragazzo fortunato, così come quella parte della mia generazione che negli stessi anni fine Sessanta è vissuta di sogni e speranze inimmaginabili nel girone dantesco di Villa Azzurra e di tutto il manicomio.

Pensa che la legge 180/78 abbia definitivamente chiuso realtà come quelle che racconta nel libro oppure ci sono ancora situazioni critiche (magari con nomi diversi)?

Franco Basaglia

La risposta a questa domanda è nel libro, esattamente nel capitolo sul Forteto. Realtà su cui non si esercitava alcun controllo. Ed era una grande comunità in cui si azzeravano pensieri, sentimenti, volontà dei minori affidati alla struttura dalle autorità istituzionali (fra cui i giudici minorili di Firenze). Il fondatore del Forteto è stato condannato a luglio 2016 a 15 anni e mezzo in appello per abusi e maltrattamenti.

Il suo libro si conclude con un tuo reportage ad Archi, in Calabria, quali sono le sensazioni e le emozioni che ha provato durante la sua visita?

Entri in città dalla tangenziale e dal primo incrocio incontri ragazzi che chiedono l’elemosina. Sono i ragazzi del centro di prima accoglienza di Archi: il posto più squallido che si possa immaginare. Là si misura la nostra accoglienza: cara per la collettività e desolante per chi ne è il destinatario. Balza subito agli occhi che qualcosa non funziona fra costi e benefici. Quel luogo sembra concepito per invitare i ragazzi sani ad andarsene e a scomparire, i depressi restano là, mesi e mesi. Comincia ad Archi la china discendente di chi arriva da paesi in guerra, di morte e lutti, ma, anziché essere aiutato, sostenuto, è lasciato a galleggiare in un’atmosfera surreale. E a chiedere l’elemosina come un automa.